A PALAZZO BRASCHI
di Edoardo Sassi
ROMA – Lui, ovvero il fotogiornalismo per antonomasia: Robert Capa. Talmente famoso che si potrebbe non aggiungere altro. Talmente «parlanti» i suoi scatti che bisognerebbe limitare al minimo le parole di presentazione. Tant’è: una mostra con 78 fotografie del maestro ungherese — Capa, pseudonimo di Endre Ernõ Friedmann, era nato a Budapest nel 1913 e morì il 25 maggio 1954 calpestando una mina antiuomo durante la guerra d’Indocina — è aperta da mercoledì e fino al 6 gennaio nel Museo di Roma-Palazzo Braschi. Una mostra dal titolo «Robert Capa in Italia 1943-1944», che coincide con un doppio anniversario: il centenario della nascita del grande fotoreporter e i settant’anni dello Sbarco degli Alleati.
Com’è noto, Capa scattò circa 70 mila foto in quasi quarant’anni di vita professionale. Un’eredità oggi custodita a New York, all’International Center of Photography. Da questo enorme patrimonio originale, il fratello Cornell (fotografo anche lui) e il biografo di Capa, Richard Whelan, hanno poi selezionato (negli anni Novanta) 937 foto, scattate in 23 Paesi di quattro continenti, scelte tra le più caratteristiche e importanti, le quali a loro volta hanno dato vita a tre serie identiche — le cosiddette master Selection I, II e III — ognuna completa di tutte le immagini, conservate a NY, Tokyo e Budapest.
Quelle in mostra a Roma, 78 appunto, arrivano da Budapest, acquistate tra 2008 e 2009 dal Museo nazionale ungherese, e sono ora visibili nei nuovi ambienti espositivi del museo destinati a mostre temporanee. Un’esposizione ideata dal Museo nazionale Ungherese di Budapest e dalla Fondazione Fratelli Alinari, curata da Beatrix Lengyel, che dopo Roma farà tappa a Firenze nel Museo nazionale Alinari della Fotografia (10 gennaio-30 marzo 2014). I reportage dell’esule ungherese Capa, anche questo è notissimo, rendono testimonianza di cinque diversi conflitti bellici: in primis la guerra civile spagnola del 1936, che rese Robert famoso nelle redazioni di mezzo mondo (il suo pseudonimo nasce in quell’anno, ed è su quel fronte che muore la fotografa Gerda Taro, il grande amore della sua vita), la seconda guerra sino-giapponese che seguì nel 1938, la Seconda guerra mondiale (1941-1945), il conflitto arabo israeliano del 1948 e, per lui fatale, la prima guerra d’Indocina.
Questa mostra romana si concentra solo su alcuni selezionati scatti in bianco e nero del Capa giunto in Italia come corrispondente di guerra al seguito dell’esercito Usa e «star» del magazine «Life» (alcune copertine sono anche in mostra a Roma). In Italia resta appunto dal luglio 1943 al febbraio 1944. E in quel frangente Capa — che fu anche uno dei leggendari fondatori dell’agenzia fotografica indipendente Magnum — si mette a ritrarre nel suo tipico stile antiretorico la vita dei soldati e dei civili, dallo sbarco in Sicilia, fino ad Anzio.
Un viaggio fotografico con immagini che spesso giungono fin nel cuore del conflitto, accompagnate in mostra dalle parole scritte dallo stesso Robert nel suo diario «Slightly out of focus», pubblicato nel 1947 (edito in Italia da Contrasto con il titoloLeggermente fuori fuoco). «Capa — ebbe a scrivere di lui John Steinbeck — sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino»: e viste da vicino sono la resa di Palermo, la distruzione della posta centrale di Napoli o il funerale delle giovani vittime delle cosiddette Quattro Giornate di Napoli, la gente in fuga da Montecassino mentre infuriano i combattimenti, i preti, gli sciuscià, le bombe, i feriti, gli asini, i pianti e il dolore, le trincee, i campi di prigionia o gli ospedali improvvisati… Visti da Capa.
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