Eleonora Febbe
Si è concluso il diciannovesimo giorno di scontri tra Armenia e Azerbaigian in Nagorno-Karabakh, con il cessate il fuoco del 10 ottobre – prontamente infranto il giorno stesso – che ormai è solo un ricordo.
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Continuano ad aumentare le vittime: dall’inizio della guerra 604 soldati e 25 civili armeni sono rimasti uccisi, con oltre 100 civili feriti. Gli azeri, invece, non rilasciano statistiche sui loro soldati e martedì hanno dichiarato che 43 civili sono morti e 218 sono rimasti feriti. Si teme però che il conto delle vittime sia molto più alto. L’impatto sui civili si sta rivelando particolarmente grave: il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha diffuso foto di scuole e abitazioni distrutte, mentre il Covid-19 si aggiunge alla devastazione della guerra. Le nuove infezioni sono aumentate dell’80% in Azerbaigian nell’ultima settimana, mentre in Armenia sono raddoppiate in 15 giorni. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato l’allarme, sottolineando i rischi di infezioni causati dalla chiamata alle armi nei due paesi. Ma nemmeno la paura del virus basta a fermare gli scontri. Il 14 ottobre il governo azero ha confermato di aver colpito per la prima volta un obiettivo in territorio armeno, e non in Nagorno-Karabakh. Si tratterebbe di una base missilistica: gli azeri continuano a ribadire che i loro obiettivi siano soltanto strutture militari, non insediamenti civili. Il presidente azero, Ilham Aliyev, ha anche accusato gli armeni di puntare a distruggere gli oleodotti, una delle principali fonti di ricchezza per il Paese. Dall’Armenia, intanto, il primo ministro, Nikol Pashinyan, afferma che Erevan è pronta a rispettare il cessate il fuoco, ma che Baku non ha intenzione di farlo e che, anzi, sta usando la relativa calma per avanzare. In effetti, nel pomeriggio di giovedì Aliyev ha annunciato che l’esercito azero ha preso il controllo di sei villaggi. E gli azeri accusano gli armeni di aver lanciato missili su una zona residenziale di Ganja, la seconda città azera, mercoledì in un discorso alla nazione Pashinyan ha ammesso che l’esercito armeno ha subito numerose perdite. Ma non ha mostrato alcun segno di apertura a negoziati di pace: al contrario, ha incitato gli armeni a “vincere e costruire una nuova epica, una nuova battaglia eroica”.
La comunità internazionale verso i negoziati
Per quanto riguarda le posizioni della comunità internazionale, la Turchia continua sostenere l’Azerbaigian. A detta del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, i turchi gli avevano confermato in una telefonata domenica di essere a favore del cessate il fuoco; ma ora sembrerebbe che Ankara stia fornendo aiuto militare agli azeri, sotto forma di mercenari reclutati in Siria. Aliyev ha negato e bollato la notizia come fake news. Ufficialmente, la Turchia continua a incoraggiare nuovi negoziati di pace insieme a Mosca, pur sostenendo apertamente l’integrità territoriale azera: ieri i presidenti dei due paesi, Recep Tayyip Erdoğan e Vladimir Putin, si sono sentiti telefonicamente per la prima volta dall’inizio del conflitto. Secondo il comunicato ufficiale del Cremlino, i due hanno sottolineato il bisogno urgente di sforzi congiunti per arrivare a un accordo pacifico tra le due parti. La Russia in particolare è interessata a mostrarsi come un mediatore neutrale, nonostante sia ufficialmente alleata dell’Armenia tramite il Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO). Una dichiarazione forte sul conflitto è arrivata nella notte dal segretario di Stato americano, Mike Pompeo, dopo giorni di silenzio. Auspicando un ritorno al tavolo dei negoziati, ha, infatti, espresso la speranza che “gli armeni siano in grado di difendersi da quello che stanno facendo gli azeri”. Una presa di posizione tanto netta sulle responsabilità dell’escalation, ovviamente, non è passata inosservata a Baku e Erevan. Intanto, l’ultima dichiarazione del Gruppo di Minsk dell’OSCE invita Pashinyan e Aliyev a rispettare i termini del cessate il fuoco, per “prevenire conseguenze catastrofiche nella regione”, mentre l’ultima dichiarazione dell’Ue è dell’11 ottobre.
Scontri offline e online
La guerra continua anche virtualmente su Internet, con insulti, minacce e disseminazione di fake news da entrambe le parti. È stata anche osservata la proliferazione di bot pro-Armenia e pro-Azerbaigian, che fanno pensare a una studiata strategia di (dis)informazione da parte di Erevan e Baku. L’Armenia è in vantaggio numerico online, grazie a una penetrazione di Internet molto maggiore rispetto all’Azerbaigian e soprattutto grazie a una diaspora armena molto numerosa e molto attiva sui social media, che conta tra le sue fila celebrità del calibro di Kim Kardashian, Serj Tankian e Henrikh Mkhitaryan, tutti impegnati a difendere la causa armena. La diaspora armena è anche molto attiva offline, con l’organizzazione di manifestazioni in varie metropoli occidentali, da Parigi a Los Angeles. Alcuni armeni della diaspora hanno addirittura lasciato tutto e sono partiti ad aiutare la madrepatria in Nagorno-Karabakh. Un esempio concreto dei risultati dell’attivismo della diaspora è la mozione approvata nella notte dal Consiglio comunale di Milano per “la condanna dell’aggressione turco-azera e per il riconoscimento della Repubblica dell’Artsakh” (il nome del Nagorno-Karabakh in armeno, ndr).
Una guerra di narrative
Osservando la guerra in corso, l’impressione che resta è che un cessate il fuoco provvisorio sarà probabilmente raggiunto prima o poi, ma che le identità nazionali dei due paesi siano troppo dipendenti dal Nagorno-Karabakh per consentire una riconciliazione stabile e duratura. Uno dei pochi movimenti bipartisan che invitava alla pace – l’appello lanciato da Caucasus Talks e firmato da attivisti armeni e azeri – ha creato polemiche online, con insulti e minacce rivolti ai firmatari. Due di loro, Narmin Shahmarzade e Giyas Ibrahimov, sono stati portati in procura per un interrogatorio. Lo studioso britannico Thomas De Waal ha anche criticato il Gruppo di Minsk – il canale principale di negoziati in questi 30 anni di conflitto – perché si è limitato a essere un’arena formale tra governi che non è mai riuscita a diffondere un vero messaggio di pace e fiducia reciproca nella popolazione dei due Paesi. E su OC Media l’accademica azera Leyla Sayfutdinova suggerisce che per una pace duratura – anche se imperfetta – in Nagorno-Karabakh è necessario che entrambe le parti abbandonino l’idea di dover vincere sugli altri a tutti i costi, e che accettino che qualsiasi risoluzione del conflitto comporterà necessariamente una sconfitta per tutti.
Fonte: https://www.eastjournal.net/archives/111318
Foto: scmp.com