Introduzione
La devastante esperienza della Seconda guerra mondiale aveva dimostrato che le nuove guerre non erano più dirette solo a obiettivi militari, ma colpivano anche i centri abitati, la popolazione civile, il patrimonio culturale. È la “guerra totale”, che assimila i soldati ai civili e travolge tutte le risorse di un Paese, con il ricorso ad armi più potenti e nuove strategie, alla guerra economica, alla guerra psicologica. Alla fine della Prima guerra mondiale era già chiaro che una efficace tutela del patrimonio culturale in tempo di guerra andava preparata in tempo di pace, certezza che sfocerà nella Convenzione dell’Aja del 1954 relativa alla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato. l Preambolo della Convenzione introduce un concetto fondamentale: i danni arrecati ai beni culturali di qualsiasi popolo costituiscono un danno al patrimonio culturale dell’intera umanità, poiché ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale. È un concetto che ha radici nel passato. L’intellettuale francese Quatremère de Quincy, amico di Antonio Canova, si oppose per lo stesso motivo alle spoliazioni di Napoleone, nella convinzione che le ricchezze delle scienze e delle arti appartengano a tutti, non importa quale Paese ne sia il depositario. È da questo principio che prende spunto il corrente numero di «Predella». Dalle notizie che ci giungono dalla Siria e dal Mali, ma anche, per motivi diversi, dalla Grecia. Dalla consapevolezza che la perdita del patrimonio culturale di un Paese è un danno incalcolabile per la sua popolazione, ma rende anche tutti noi più poveri. Dall’urgenza di richiamare l’attenzione su questi temi e dalla certezza che sia indispensabile un assennato impegno internazionale per non vedere distrutti secoli di civiltà. I primi due articoli ci illustrano criticamente la normativa in vigore, sottolineandone pregi e punti deboli. Marco Brocca, analizzando la Convenzione dell’Aja, i successivi indirizzi normativi e la loro applicazione, ci ricorda che l’aggressione ai beni culturali equivale al tentativo di annientare l’identità e la memoria storica di un popolo, aggiungendo alla distruzione materiale la distruzione morale del nemico. Siamo subito introdotti in alcuni temi che si svilupperanno nel corso della rivista: l’identificazione di un popolo con il proprio patrimonio culturale e la distruzione intenzionale dei simboli di chi è ritenuto nemico. Il bene culturale è un obiettivo pagante anche in caso di terrorismo, perché colpisce l’identità dell’avversario e ha un forte riscontro mediatico. Massimo Carcione si sofferma invece sulle potenzialità e sulle mancanze delle Organizzazioni Non Governative, evidenziando come un’attenta attività di prevenzione potrebbe assicurare la protezione del patrimonio culturale anche contro i rischi rappresentati dalle calamità naturali, con notevoli ricadute in termini di sviluppo e occupazione. Purtroppo, la logica degli sponsor è generalmente all’opposto di queste considerazioni, in quanto una normale e auspicabile attività di prevenzione non ha la stessa ricaduta di immagine di un costoso e importante intervento di restauro su un bene già pesantemente danneggiato. In questo primo gruppo rientra anche l’articolo di Rino Büchel, che ci illustra come la Svizzera – citata come esempio anche nell’articolo di Carcione – provveda, attraverso i Cantoni e le Autorità federali, alla protezione del proprio patrimonio culturale, con corsi di formazione, esercitazioni, pubblicazioni, documentazione e piani di salvaguardia. Dagli anni Sessanta, la Svizzera ha inoltre realizzato un imponente sistema di rifugi per beni culturali mobili, tanto da poter ospitare – previa richiesta ufficiale – anche il patrimonio culturale di Paesi coinvolti in un conflitto. Erano gli anni della guerra fredda e alcuni Stati, come la Svizzera e l’Olanda, predisponevano rifugi antinucleari per i beni culturali nella previsione di un nuovo conflitto. Anche l’Italia risentì del clima di tensione generato dal rischio di uno scontro fra le due grandi potenze, Stati Uniti e Unione Sovietica. All’inizio degli anni Cinquanta, la guerra di Corea impresse un’accelerazione alle richieste del Ministero della pubblica istruzione di creare nuovi luoghi di rifugio per le opere mobili e alla proposta, già ampiamente presente nel dibattito degli storici dell’arte, di distacco dei maggiori cicli affrescati italiani, come raccontato nell’articolo della scrivente. Le conseguenze della Seconda guerra mondiale si ripercuotono ancora oggi sul patrimonio culturale di una zona della Prussia orientale ceduta all’Unione Sovietica nel 1945, oggi nota come Oblast di Kaliningrad, di cui ci parla Christof Ringler. In seguito all’occupazione della regione da parte dell’Armata Rossa e al forzato abbandono della popolazione tedesca, chiese e pregevoli edifici prussiani vennero lasciati andare in rovina – come ben documenta Google Earth – o utilizzati dai nuovi abitanti, non sempre in modo appropriato: come cave per estrarne materiale da costruzione, depositi agricoli e magazzini, provocandone l’ulteriore degrado. Fenomeni che si ripetono negli anni e che colpiscono più frequentemente gli immobili destinati al culto. Così negli anni Sessanta, in Albania, chiese, moschee e monasteri vennero distrutti o convertiti in palestre, magazzini, stalle e sale da ballo; mentre in Tibet, dopo l’occupazione cinese, furono distrutti templi, statue, oggetti rituali, manoscritti e tangke – i tradizionali dipinti religiosi su tessuto bordato di seta – mentre i palazzi venivano trasformati in case popolari; o negli anni Settanta in Cambogia, quando, sotto il regime dei Khmer rossi, molti monumenti di Angkor furono trasformati in porcili, e monasteri buddisti, statue e oggetti di culto vennero distrutti. Per arrivare al caso clamoroso dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan, fatti saltare in aria, sotto gli occhi del mondo, nel 2001. Sono motivi ideologici quelli che spingono ad accanirsi contro i simboli religiosi di una comunità. Come evidenzia il contributo di Mahmoud Salem Elsheikh, la rinnovata importanza dei luoghi santi testimonia il recupero della religione come fattore identitario, in un momento in cui perdono forza altre forme di identità, come quella politica o ideologica. Le conseguenze sono quelle prospettate dalla teoria di Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations, per cui, dopo la guerra fredda, sono proprio le “guerre di civiltà”, legate alle identità culturali e religiose, la principale causa di conflitto nel mondo. Solo il rispetto per le reciproche diversità può scongiurare questo pericolo, e i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo hanno un ruolo di primo piano in questo processo. Ne è un caso esemplare la situazione della Palestina, a cui sono espressamente dedicati due interventi. Olimpia Niglio ci introduce alle vicende storiche e politiche del Territorio palestinese occupato (Cisgiordania e Striscia di Gaza), ricordandoci il ruolo di questa terra nella storia della civiltà. Per salvare questo patrimonio in trincea, minacciato dalla situazione politica della regione, non è sufficiente tutelare i singoli monumenti, ma è necessario un organico progetto di riqualificazione e valorizzazione di tutto il territorio, con particolare attenzione alle tradizioni culturali e allo sviluppo locale. Un esempio concreto di vita in area di crisi è rappresentato dall’articolo di Naseer Arafat dedicato alla città di Nablus, la cui affascinante storia è in stridente contrasto con le vicende contemporanee. In questo caso, i progetti di recupero più riusciti sono quelli che non si sono limitati al restauro del patrimonio architettonico della città, ma che hanno avuto un riflesso anche nella ricostruzione della comunità umana. L’incontrollabile situazione della Siria, sconvolta dalla guerra civile, è testimoniata dall’articolo di Rodrigo Martín Galán. Anche in questo caso, l’introduzione storica, che ci ricorda il ruolo primario di questo Paese nella storia della civiltà, rende ancora più drammatica la mancanza di informazioni sicure sulla reale situazione del patrimonio culturale. In Siria si stanno verificando tutti i problemi tipici di un territorio in guerra: siti archeologici trasformati in campi di battaglia e postazioni militari o abbandonati agli scavi clandestini; edifici storici danneggiati o distrutti; musei saccheggiati; opere d’arte evacuate verso destinazioni sconosciute senza le precauzioni imposte dai moderni criteri di tutela; patrimonio intangibile – rappresentato dalle tradizioni culturali – disperso o perduto, con gravi conseguenze per la comunità locale. Ed è proprio della ricomposizione di una comunità umana che ci parla l’articolo di Luigi Marino affrontando il problema della ricostruzione postbellica, momento fondamentale per ricostituire il senso di appartenenza e di autostima di una comunità. Apparentemente neutrale, la ricostruzione, in realtà, si può rivelare molto pericolosa. Al centro di grandi interessi economici, la ricostruzione è dettata dal vincitore, che può imporre modelli, materiali e tecniche estranei alla cultura locale, provocando la progressiva perdita di conoscenze e abilità tradizionali. Parlando di conflitti in corso, gli articoli spesso assumono prese di posizione forti, non neutrali, ed è normale che sia così. Del resto, nemmeno il concetto di patrimonio culturale è neutro. Il patrimonio, infatti, non è solo l’insieme dei beni culturali provenienti dal passato, ma è il frutto della selezione in base alla quale ogni società stabilisce cosa è degno di essere conservato per le generazioni future, in un continuo processo di memoria e oblio. Ce lo dimostra l’articolo di Giorgos Vavouranakis, in cui la definizione “area di crisi” assume un significato più ampio, atto a comprendere la crisi economica che si sta pesantemente ripercuotendo sul patrimonio culturale greco. L’immagine che noi abbiamo della Grecia, immediatamente identificata con le sue antichità, si è formata in realtà nell’Ottocento, quando motivi politici spinsero a valorizzare il glorioso passato classico a scapito di quello ottomano e bizantino, per inglobare la Grecia nell’orbita europea. Questo processo di selezione viene portato alle estreme conseguenze in caso di guerra, quando si formano le liste di priorità degli oggetti da salvare. Ed è evidente anche nell’articolo di Frederick M. Asher a proposito delle opere d’arte indiane illecitamente esportate. Anche per l’India si pone il problema di identificare quegli oggetti insostituibili che costituiscono il patrimonio nazionale, in modo da richiederne la restituzione. In questo caso, solo una risposta “etica” può supplire alle mancanze della legislazione. L’ultimo blocco di articoli mette in rilievo l’importanza dell’educazione della popolazione e della formazione di civili e militari per una efficace azione di tutela. Per questo il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale affianca alla sua intensa attività per la protezione dei beni culturali un’altrettanto importante azione di formazione e sensibilizzazione del pubblico e degli operatori. Nelle missioni internazionali di peacekeeping, come illustra nell’intervista il Generale di Brigata Mariano Mossa, uno dei compiti dei Carabinieri TPC è anche quello di addestrare le Forze di polizia locali, oltre ai responsabili di siti archeologici e musei. Laurie W. Rush ci testimonia gli sforzi attuati per instillare nell’Esercito americano il rispetto per il patrimonio culturale dei Paesi in cui si troveranno a combattere, nel tentativo di avvicinare i militari alla popolazione locale. Fra le iniziative, la distribuzione di apposite carte da gioco fra i soldati. Ogni carta lancia un messaggio e ogni seme affronta un tema specifico: Quadri per oggetti e opere d’arte, Picche per siti archeologici e scavi, Fiori per la protezione del patrimonio culturale, Cuori per conquistare cuori e menti. Lo sfondo di ogni carta dello stesso seme, inoltre, funziona come la tessera di un puzzle, a significare che se un bene culturale viene rubato o distrutto, pezzi importanti del puzzle – e della storia – sono persi per sempre. L’ultimo articolo riprende i principali temi affrontati attraverso l’opera di Fabio Maniscalco, un precursore nella protezione del patrimonio culturale in area di crisi. Citato negli articoli di chi l’ha conosciuto, la sua attività e i suoi insegnamenti rivivono nel bel ricordo che ne ha tracciato la moglie Mariarosaria Ruggiero Maniscalco. È per questo impegno affrontato con passione che Maniscalco è scomparso nel 2008, mentre la comunità internazionale degli studiosi, dall’anno precedente, stava raccogliendo le firme per candidarlo al Nobel per la pace. A conclusione, un suo testo sull’attività dell’Osservatorio per la Protezione dei Beni Culturali in Area di Crisi, da lui fondato, in cui vengono messi a fuoco i principali problemi relativi alla salvaguardia del patrimonio culturale nelle aree a rischio bellico. La figura di Maniscalco ci ricorda inoltre che quando parliamo di patrimonio culturale in guerra sullo sfondo ci sono stragi di civili e rischi per la popolazione e per gli operatori, causati anche dall’“inquinamento bellico”. A questo punto non posso che ringraziare tutti gli autori che hanno condiviso con me questa esperienza, ricca non solo dal punto di vista professionale, per i numerosi spunti di riflessione, ma anche umano; alcuni di loro (come Luigi Marino e Olimpia Niglio) mi hanno dato anche preziosi consigli in fasi diverse del lavoro. Sono molto grata ai direttori di «Predella», Emanuele Pellegrini e Gerardo de Simone, che mi hanno lasciato piena libertà di movimento, ringrazio i referees e la cara amica Loredana Nardi per il fondamentale aiuto. La parola “patrimonio” deriva dal latino patrimonium, formato dalla radice pater, padre. Il patrimonio è l’eredità che viene lasciata ai figli (in inglese si parla di heritage); nel caso del patrimonio culturale, un’eredità che non consiste in soldi e possedimenti, ma in beni culturali, valori e tradizioni. Il patrimonio culturale implica un legame familiare, il nostro senso di appartenenza a una comunità. Per alcuni studiosi nella parola patrimonium è presente anche il termine munus, dono, ma anche compito. Non tutti concordano, ma mi piace pensare che questa etimologia sia corretta. “Patrimonio”, quindi, come dono dei padri. Secondo il famoso Saggio sul dono di Marcel Mauss, pubblicato nel 1923-1924, le relazioni fra gli esseri umani nascono dallo scambio, ed è il dono a innescare un sistema di scambi. Il dono circola, e con lui viaggia lo spirito del donatore, creando forti legami fra gli individui. Il patrimonio culturale lasciatoci dai padri deve avere un futuro. Sta a noi non spezzare questa catena.
Foto-Fonte: predella.it