Il rischio di distruzione che in questi giorni sta correndo la città di Palmira, uno dei maggiori centri dell’antichità nel deserto della Siria, è presente nella cronaca di giornali e siti web. La conquista da parte dell’Isis dello storico sito, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità, e i combattimenti in cui è stato coinvolto sono stati confermati anche dall’Osservatorio siriano per i diritti umani. D’altra parte, il sito risultava già da tempo occupato e utilizzato dall’esercito lealista.
Negli ultimi mesi, le immagini delle distruzioni del patrimonio culturale iracheno e siriano, prima note soprattutto attraverso pubblicazioni e siti specializzati, sono sotto gli occhi di tutti. Vale quindi la pena chiedersi per quale motivo i beni culturali del “nemico” siano sempre più spesso oggetto di distruzione e saccheggio in caso di guerra e terrorismo. L’identificazione di un popolo con il proprio patrimonio culturale è molto forte, e si rivela un importante fattore di coesione della comunità. Ma proprio per questo il patrimonio culturale può anche dividere, e trasformarsi in un obiettivo pagante per chi, di quella comunità, si considera nemico: colpisce l’identità dell’avversario distruggendo i simboli in cui si riconosce, aggiungendo alla sua distruzione materiale anche quella morale. Distruzione che ha mostrato un forte incremento negli ultimi anni, perché gli atti terroristici sono a volte l’alternativa più efficace per combattere eserciti più ricchi e potenti. L’attacco a un bene culturale, inoltre, presenta molti vantaggi: è un forte strumento di guerra psicologica; comporta, a determinati livelli, una certa facilità di esecuzione e costi relativamente ridotti a fronte dei risultati che si possono ottenere; dà la certezza di colpire la memoria storica dell’avversario; può coinvolgere anche visitatori e turisti e, soprattutto, ha un forte riscontro mediatico. Il terrorismo non è un fenomeno nuovo: già al tempo della Seconda guerra mondiale si parlava di bombardamenti terroristici (è il caso dei moral bombings). Ma non esiste una definizione univoca, accettata da tutti, del termine “terrorismo“. Il significato del termine è infatti cambiato nel corso di 200 anni, evidenziando differenti tipi di terrorismo. Si tratta infatti di un concetto contestato, poiché ogni azione può essere considerata da due punti di vista opposti: “One man’s terrorist is another mans freedom fighter”. Il terrorismo è diffuso in tutto il mondo, ma con enormi differenze geografiche. In Occidente ne parliamo molto, esistono studi, pubblicazioni e centri specializzati, ma il numero di attentati è relativamente limitato rispetto a quanto avviene in altre aree del mondo: nel 2013, l’82% delle vittime di terrorismo riguarda solo 5 paesi: Iraq, Afghanistan, Pakistan, Nigeria e Siria, secondo i dati riportati nel Global Terrorism Index 2014 dell’Institute for Economics and Peace elaborato sulla base del Global Terrorism Database (GTD) dell’Università del Maryland. Nemmeno le Liste delle organizzazioni terroristiche sono univoche: esistono le Liste dell’Unione Europea, dell’ONU, degli Stati Uniti. Non c’è sempre accordo sull’inserimento di un’organizzazione nella lista: è il caso dell’organizzazione libanese Hezbollah, inserita nel 2013, dopo molte discussioni, nella lista dell’Unione Europea. Nel corso degli anni ci sono stati vari tentativi di arrivare a una definizione condivisa del termine, indispensabile per la buona riuscita della cooperazione internazionale. Nella lotta contro il terrorismo sono infatti di fondamentale importanza la condivisione delle informazioni, l’accordo sui gruppi inseriti nelle liste, la garanzia dell’estradizione dei sospetti. In generale, il terrorismo si definisce come uno strumento o una tattica di alcuni gruppi per raggiungere determinati scopi attraverso la violenza. Le finalità sono varie: un atto terroristico può infatti servire a propagandare e imporre una causa politica o religiosa, a esercitare una pressione politica, a estorcere denaro o benefici. Uno dei mezzi per ottenere questi scopi, come sottolinea la stessa parola, è quello di diffondere il terrore. Questo implica che l’obiettivo diretto dell’attacco non necessariamente è il vero obiettivo. Spesso il vero obiettivo è indiretto: si colpisce qualcuno o qualcosa per attirare l’attenzione e per spaventare gli “spettatori”. L’atto violento non è sempre, o non tanto, contro le persone o gli oggetti che sono colpiti, quanto contro le persone che assistono. Una risposta a questo tentativo di diffondere la paura è la creazione dei movimenti “We are not afraid”, sorti dopo gli attacchi di Londra del 2005. La comunicazione è quindi fondamentale per il terrorismo, e i mass media, inevitabilmente, danno un grande apporto alla causa del terrorismo. Attraverso la comunicazione, un gruppo terrorista mostra i propri successi, afferma la sua influenza sul territorio e ottiene la visibilità necessaria per rivolgersi alle masse e aumentare la propria capacità di reclutamento di nuovi adepti. Il web, ovviamente, amplifica tutte queste possibilità. La distruzione del patrimonio culturale si presta molto bene a questo scopo: in poco tempo questo genere di notizie fa il giro del mondo, tutti ne parlano. Il patrimonio culturale può quindi funzionare come obiettivo diretto, per eliminare le tracce culturali del nemico; e come obiettivo indiretto, per richiamare l’attenzione, ottenere visibilità e spazio sui mass media. La distruzione dei Buddha di Bamiyan, nel 2001, rispondeva particolarmente bene a entrambi gli scopi.
Foto-Fonte: laricerca.loescher.it
Articolo 28 maggio 2015
Foto: La bandiera di Isis sventola su Palmira (da Twitter, @HalaJaber, e poi ripresa da Corriere.it)