di Giuseppe Barcellona
«Papà dobbiamo sfollare, hanno ritrovato una bomba della guerra e la devono detonare».
«Io rimango qua, sono già scappato quel giorno, per me non vale.
Quanto avevi nel maggio 1943?».
«Dieci anni e me lo ricordo come se fosse ora».
«Racconta papà».
Questo è il suo racconto di quei giorni.
«Vivevamo dalle parti di via Montalbo, verso il 1942 mio padre andò a lavorare al cantiere navale di Genova perché Palermo era diventato teatro di guerra. Lasciò a casa mia madre e quattro figli, io ero il più grande avevo 10 anni; mi ricordo che ogni giorno portavo a mio padre la gamella con la pasta alla carrettiera, circa trecento grammi.
Non sempre avevamo la pasta ma il mangiare non ci mancava; eravamo fortunati che l’uomo di casa lavorasse, il nonno invece era scappato a Marsiglia perché era militante comunista e dichiarato antifascista.
Da Genova arrivava puntualmente il vaglio postale con i soldi, al mercato nero la mamma comprava le cose, certe volte di nascosto per non alimentare l’invidia dei vicini; a volte regalava ai meno fortunati cereali, pane, latte, quello che poteva.
La mattina passava il vaccaro e ci dava il latte; mia madre gli diceva che se lo mischiava con l’acqua al ritorno di mio padre da Genova avrebbe fatto una brutta fine, facevamo la cafiata, latte, surrogato di caffè, pane duro, zucchero.
A pranzo pane e panelle o pane e olio; certe volte mangiavamo pane e mandarini, limone, fichi d’india, fichi; la sera facevamo la pasta con quello che c’era, broccolo, verdure, fagioli, spesso solo verdure e pane abbagnato. Avevamo alcune galline, le uova non ci mancavano, capitava di scannare una gallina e farla bollita, l’unica carne che conoscevamo tranne poche volte all’anno interiora di maiale o caldume oppure spezzatino con patate, ma erano patate con pezzi di grasso dentro, oppure mangiavamo babbaluci al sugo.
Pesce chi lo pescava se lo mangiava oppure se lo compravano i ricchi, mio padre non sapeva pescare, una volta gli hanno regalato un polipo, fu un evento.
I ricchi andavano a fare la spesa alla Vucciria e si pigliavano il the all’Extra Bar, per loro la guerra non era mai iniziata; noi non eravamo poveri, avevamo due fornelli a carbone, la cucina in muratura, una casetta con due stanze e le pareti di calce, i soldi da Genova arrivavano puntuali.
Poi non arrivarono più, e fu una tragedia; mia madre aspettò due mesi e non ricevendo più risposte dalla Liguria pensò al peggio.
Cominciarono i primi bombardamenti degli americani che non erano signori come gli inglesi, ci rifugiavamo in una grotta a fondo Marasà di proprietà dei preti di Piana degli Albanesi, era un posto sicuro rispetto a quella di via Ruggero Loria dove un giorno è crollato il tetto. A Marzo del 43 una bomba centrò una nave carica di esplosivo al porto, fu una carneficina, la gente aveva paura, ma a maggio del 43 i bombardamenti cominciarono a tappeto.
La mamma era incinta, poteva partorire a giorni, non avevamo ne soldi ne mangiare, scappammo a Genova a cercare papà, ammesso che fosse ancora vivo.
Pagammo il biglietto del treno coi pochi soldi rimasti, ci mise un’eternità per arrivare a Battipaglia, dalla Campania a Roma a piedi o con passaggi di fortuna, qualcuno ebbe pietà della nostra famiglia, ridotti come eravamo.
A Roma un funzionario dei treni si incazzò perché ci avevano fatto pagare il biglietto, per le famiglie numerose era gratis, la mamma stava partorendo li sui binari, fu portata all’ospedale dai tedeschi; nacque mio fratello e finirono i bombardamenti, per questo lo chiamammo Salvatore.
Da Roma a Genova fu terribile col poppante e altri quattro bambini piccoli, ma alla fine arrivammo.
Quando mio padre ci vide arrivare al porto di Genova al limite dell’umana sopportazione si mise a piangere, lui i soldi li aveva mandati, ignorava che fine avessero fatto.
Affittò una casa in via Vico Fieno, poi una più grande in via Acquarone Alto, a Genova si stava bene, ma la guerra arrivò anche li, fascisti, tedeschi e partigiani era una vera e propria guerra civile, così i bambini fummo sfollati nelle zone ancora in pace.
Fummo ospitati dalla famiglia Mario e Riccardo Casci Ceccacci di Ostra in provincia di Ancona, li la guerra non c’era anche se la popolazione locale aveva sotterrato tutte le cose di valore per paura che da un giorno all’altro le cose andassero in malora.
Nelle marche noi bambini fummo trattati bene, all’epoca tra italiani ci aiutavamo, eravamo un popolo non avevamo nient’altro che l’amore; quando Genova fu tranquilla tornammo insieme ed era già il momento di tornare a Palermo.
La guerra era finita, rimanevano le macerie; con i mattoni degli edifici distrutti si ricostruivano gli altri; mio padre andò a lavorare per un privato, poi riprese il posto al cantiere che nel frattempo gli americani avevano sequestrato e poi restituito alla famiglia Piaggio.
I fascisti non vennero picchiati ma avevano paura a farsi vedere in giro, i mafiosi anche, le leggi del regime contro di loro erano ancora in vigore.
Le cose lentamente si ripresero grazie agli aiuti degli americani, erano alloggiati alla caserma Cascino ed al porto, c’era il dollaro e la speciale moneta di occupazione, gli americani distribuivano il mangiare ma durò soltanto un anno poi non davano più niente, le ciminiere tornarono a produrre energia elettrica.
La fame ci fu anche nel dopoguerra, i camion coi viveri arrivavano ma finivano nel nulla, allora mettevamo nelle strade le travi nella speranza che qualche cassa di cibo saltasse giù ed in quel caso dovevamo essere più lesti degli autisti per prenderla, un bambino fu ucciso schiacciato da un camion.
Cominciarono a riaprire i negozi ed una volta la settimana mangiavamo carne di vaccino e chi se la ricordava più? Mio padre fracchiò a legnate il vaccaro e prendeva regolarmente il salario, niente più gamella, mangiava alla mensa, andavamo ogni sabato al cinema Manzella e facevano i documentari di guerra, ma ad un certo punto non ne potevamo più ed allora cominciarono i film.
Al teatro Biondo c’erano Nino Taranto e Macario…».
«Papà, basta che dobbiamo andare, dobbiamo sgomberare.
«E torniamo?».
«Sì torniamo».
«Ci portiamo zucchero, olio, cose da mangiare».
«No, papà, non c’è bisogno».
«Lo vedi questi che arrivano scappando dalla guerra, un giorno i profughi eravamo noi».
«Lo so papà, ma la gente ha dimenticato tutto».
«E tu scrivila figlio mio, così nessuno più dimenticherà».
Fonte: http://www.rosalio.it/2016/02/02/palermo-sotto-le-bombe-9-maggio-1943/
Foto: rosalio.it