Il suo nome è venuto alla ribalta lo scorso gennaio, in occasione del naufragio della Costa Concordia di fronte all’isola del Giglio. A Luigi Alcaro, infatti, in quanto responsabile del servizio emergenze ambientali in mare per l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale, dipendente dal Ministro dell’ambiente) furono affidate le operazioni di bunkeraggio – ossia di svuotamento delle cisterne – della nave. Ma Luigi Alcaro è soprattutto un grande conoscitore dei segreti che i fondali marini custodiscono, e in particolare della situazione del nostro mare Adriatico, grazie agli studi compiuti proprio per l’ISPRA. Ad Alcaro, che parteciperà alla tavola rotonda Bari racconta: veleni di guerra di ieri e di oggi, un programma il prossimo 2 dicembre, Ambient&Ambienti ha rivolto alcune domande.
Dai suoi studi, quale panorama emerge dei mari italiani, e soprattutto dell’Adriatico, quanto a presenza di ordigni chimici?
«Gli studi bibliografici, le interviste agli operatori della pesca e le indagini condotte in alcune aree pilota hanno permesso di evidenziare come la presenza di armi chimiche nei mari italiani sia accertata con particolare riferimento al basso Adriatico. Osservazioni dirette da parte di ISPRA sono state eseguite in un’area pilota distante 35 miglia nautiche a largo di Molfetta dove sono state osservate bombe d’aereo corrose contenenti iprite, un composto vescicante prodotto e stoccato anche durante la Seconda Guerra Mondiale. La presenza di questo inquinante è certa perché le analisi di laboratorio di campioni di sedimento prelevati nelle vicinanze degli ordigni hanno rilevato la presenza di prodotti di degradazione dell’iprite. Anche le indagini d’archivio e le interviste ai pescatori hanno evidenziato come la presenza di armi chimiche nel basso Adriatico sia diffusa.
Un’indagine epidemiologica condotta dal Policlinico di Bari (dall’allora responsabile Dr. Giorgio Assennato, oggi Direttore di ARPA Puglia) ha mostrato che dal dopoguerra più di 200 pescatori hanno subito una ospedalizzazione dovuta al contatto con l’iprite, a seguito del salpamento accidentale a bordo dei pescherecci di armi chimiche impigliate nelle reti. L’analisi dei documenti di archivioha invece dimostrato che tutte le armi chimiche trovate sui fondali dei porti pugliesi (tra cui anche quelle provenienti dal bombardamento del 2 dicembre 1943) sono state recuperate e affondate a largo da parte del Nucleo Smaltimento Porti Puglie,principalmente nella cosiddetta fossa dell’Adriatico tra 400 e 1000 metri di profondità. La mappatura delle aree di affondamento realizzata da ISPRA evidenzia come le aree siano molteplici; la loroestensione e consistenza sono però incerte a causa della frammentazione dei dati disponibili e del fatto che le armi chimiche sono state nel corso di decenni raccolte accidentalmente dai pescatori e riaffondate in zone che poi non sono state segnalate alle Autorità competenti».
Solo l’Adriatico è una “pattumiera” delle armi chimiche o ci sono altre aree interessate?
«Per quanto riguarda gli altri mari italiani, la certezza circa la presenza di armi chimiche si hanno nel porto di Monfalcone, a largo del Golfo di Napoli e nel Golfo di Taranto. Il porto di Monfalcone è stato oggetto di bonifica in un tratto di mare dove doveva essere realizzata una diga foranea. In quest’area il Centro Tecnico Logistico Interforze NBC di Civitavecchia ha individuato e recuperato 150 ordigni caricati con iprite scaricati al termine della Prima guerra Mondiale. La bonifica ha riguardato solo il tratto oggetto dei lavori: ne consegue che con molta probabilità i fondali circostanti custodiscano ancor altri ordigni non convenzionali. Dati provenienti dal Centro Militare di Edgewood in Maryland testimoniano come migliaia di ordigni caricati con iprite siano stati affondati in un’area indefinita a largo di Ischia al termine del secondo conflitto mondiale. La presenza di armi chimiche nel Golfo di Tarantoè invece testimoniata dai resoconti del già citato Nucleo Smaltimento Porti Puglie in cui si riferisce che migliaia di ordigni a caricamento chimico sono stati affondati a largo».
Rispetto a 20-30 anni fa, cosa è cambiato?
«La gran parte degli ordigni a caricamento chimico si trova su fondali sicuramente superiori ai 50 metri, profondità che usualmente rappresenta il limite di operatività degli interventi con subacquei. Entro queste profondità operano i nuclei SDAI della Marina Militare, incaricati di recuperare e bonificare gli ordigni rinvenuti in mare praticamente dalla fine del secondo conflitto mondiale. A queste profondità solo raramente sono state rinvenute armi chimiche. Pertanto la maggior parte delle armi chimiche smaltite in mare sono ancora presenti sui fondali, in parte vengono solo spostate dai pescatori. Esse mantengono una elevata pericolosità soprattutto per gli ecosistemi bentonici (dei fondali) e per gli operatori della pesca perché dopo decenni in mare la corrosione marina ha determinato lo sviluppo di fratture nell’involucro causando il contatto diretto degli inquinanti con l’ambiente. Il fenomeno è aggravato dal fatto che molti dei composti, come l’iprite, sono più pesanti dell’acqua e sono scarsamente solubili mantenendo il loro effetto vescicante nel tempo.
Ciò è testimoniato dal fatto che ancora oggi i pescatori si feriscono maneggiando questo tipo di ordigni e dalle analisi di laboratorio condotte dall’ISPRA su pesci catturati in prossimità di armi chimiche, su cui è stato possibile osservare la presenza di vesciche e diffusi danni istopatologici e alterazioni molecolari, tra cui anche danni al DNA».
L’ISPRA sta monitorando la situazione attuale? Ci sono delle linee strategiche, degli interventi in atto? Ci sono aree “osservate speciali”?
«Purtroppo al momento non vi sono fondi dedicati a studiare ulteriormente il fenomeno e monitorare la situazione. Il problema determinato dalla presenza di armi chimiche è consistente e di difficile soluzione per una serie di ragioni, che quindi impediscono di fatto un’azione di bonifica sistematica: le aree di affondamento non sono note con precisione, così come le quantità affondate e la tipologia; le aree di affondamento si trovano comunque a profondità dove è necessario intervenire con strumentazione estremamente complessa; la pericolosità delle molecole chimiche presenti è molto elevata e determina un consistente pericolo anche per gli operatori che dovrebbero intervenire per l’azione di bonifica. Pur tuttavia è, a mio avviso, auspicabile una serie di azioni che possono minimizzare i rischi per chi lavora in mare».
Quali potrebbero essere queste azioni?
«Anzitutto individuare con maggiore precisione le principali aree di affondamento nelle acque italiane attraverso la metodologia già sperimentata da ISPRA; quindi interdire queste alle attività di pesca. Inoltre bisognerebbe monitorare in continuo per verificare eventuali evoluzioni della situazione; infine condurre campagne di sensibilizzazione ed educazione degli operatori della pesca per istruirli sul comportamento da adottare in caso di salpamento accidentale».
Prof. Luigi Alcaro
[…] ente pubblico): nel 2013 Luigi Alcaro, responsabile del servizio emergenze ambientali in mare, sosteneva che nel Barese «dal Dopoguerra più di duecento pescatori hanno subito una ospedalizzazio… . Inoltre, nel 2007 il settimanale Avvenimenti riferiva che gli aerei […]