Ognuno recita il proprio ruolo, immerso in quella divina sensazione di devozione allo scopo comune: la realizzazione di un'opera d'arte, che anche la bonifica bellica sa idealizzare.

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Ognuno recita il proprio ruolo, immerso in quella divina sensazione di devozione allo scopo comune: la realizzazione di un'opera d'arte, che anche la bonifica bellica sa idealizzare.

8 settembre 1943 a Castellammare c’ero anch’io

Categories: Bonifica perché

di Vittorio Iovino
Mi chiamo Vittorio Iovino e sono nato a Castellammare di Stabia il 15 marzo 1929 ed abitavo a Via Coppola n. 48.
A 13 anni andai a lavorare per qualche mese nella Corderia della Regia Marina, alle dipendenza di una piccola ditta che costruiva degli stuoini di canapa intrecciata per fasciare i proiettili onde evitare lo sfregamento durante la loro movimentazione. Erano chiamati paglietti. Dopo qualche mese, un mio amico mi disse che nella Navalmeccanica c’era una scuola allievi operai che alternava lavoro e studio. Avendo, nel frattempo compiuti i 14 anni, mi iscrissi a tale scuola nel corso per tubisti. Le aule e le officine si trovano all’interno del cantiere navale nei locali dell’ex forte borbonico, Mi ricordo che sulla facciata del forte c’era una grande scritta a firma di Mussolini che così diceva: “Noi siamo mediterranei, la nostra vita è stata e sempre sarà sul mare”. Ero molto curioso e giravo sempre per il cantiere. Mi ricordo che dietro l’officina navale, nella zona che chiamavano Porto Pennello c’era un baraccamento di soldati che gestivano una postazione di cannoni; ho ancora sotto gli occhi un bunker in cemento armato che doveva respingere una ipotetica invasione dal mare.
Mentre frequentavo la scuola, feci amicizia con un marinaio tedesco che faceva parte di un piccolo distaccamento in cantiere perché erano in costruzione due motozattere per la Kriegsmarine. Mi ricordo che lungo la banchina dell’Acqua della Madonna erano ormeggiate le motozattere agli ordini del Comandante Riccio; al tramonto, salpavano, cariche di munizioni, benzina, nafta e viveri per l’Africa Settentrionale. C’erano anche diversi M.A.S., alcuni costruiti nell’officina falegnami. Quando questi mezzi accendevano i motori, il rumore era assordante Veniamo all’8 settembre 1943. Quando alla radio fu annunciato l’armistizio, tutte le postazioni antiaeree della città, credendo che la guerra fosse finita, scaricavano le armi (sparavano in aria per consumare i proiettili nel caricatore NdR). Così fecero le mitraglie della Capitaneria di Porto, le due mitraglie poste all’Acqua della Madonna ai lati della gru a manovella ed i pezzi antiaerei della Punta del Molo. I tedeschi che stavano a Castellammare ed in cantiere, volendo impadronirsi delle navi e sabotare gli impianti, trovarono una furiosa resistenza. Essi, infatti, ingaggiarono i combattimenti con i marinai posti a difesa dell’incrociatore Giulio Germanico e delle altre unità in costruzione ed in allestimento. Dell’episodio del Comandante Domenico Baffigo ho saputo successivamente. In quei giorni a Castellammare non si capiva niente. Non mi ricordo dopo quanti giorni dall’11 settembre mi recai davanti alla porta del cantiere a Via Acton per andarmi a prendere le tute di lavoro a cui ci tenevo tanto. Davanti al portone ingresso-operai di Via Sorrentina (ora Via Acton) trovai il tedesco che conoscevo che mi voleva dissuadere ad entrare per le devastazioni operate. Dopo mia insistenza il soldato mi fece entrare e trovai gli spogliatoi diroccati e gli armadi di legno degli operai tutti bruciati. Tornai indietro e cominciai a gironzolare per Castellammare. A via Gesù nei pressi della caserma della Guardia di Finanza, di fronte al negozio di Farfalla, vidi un uomo disteso a terra, morto, con una brutta ferita alla testa. Era vestito con una tuta ed ai piedi portava degli zoccoli di fabbricazione cantiere. Capì subito che era un operaio della Navalmeccanica in quanto quasi tutti calzavano zoccoli di legno fabbricati personalmente e chiamate “mantelle” (erano e sono gli oggetti che gli operai costruiscono per uso personale (NdR). Di quei giorni confusi mi ricordo solo dei flash. Non saprei se prima o dopo la cattura del Comandante Baffigo, difensore del cantiere, Woronski Giordano detto il “tarantino”, di sua iniziativa lanciò una bomba a mano su una camionetta tedesca posta davanti al bar Spagnuolo; la camionetta andò a fuoco. Io che stavo in villa comunale, scappai verso casa per l’arco di San Catello. Mi ricordo che alla salita I De Turris, nel tratto prima dell’ingresso della Curia, c’era un marinaio a petto nudo e con una fasciatura tutta macchiata di sangue. Imbracciava un fucile mitragliatore. Alcune donne, visto che a piazza Monumento c’era un camion tedesco con una mitragliatrice a 4 canne e circondato da soldati che erano in assetto di guerra, pregarono il marinaio di desistere e lo spinsero a forza nel portone sulla sinistra (attualmente numero civico, 5 NdR) che era collegato con la Circumvesuviana. Il marinaio le ascoltò e non lo si vide più. Nel frattempo un tedesco, solo e a bordo di una carrozzella, veniva correndo da Via Sarnelli verso piazza Monumento. Forse aveva sottratto la carrozzella ad un cocchiere che stazionava in piazza Municipio presso la canestra e fuggiva verso i suoi camerati. Oltre alle note distruzioni operate dai tedeschi in cantiere e sulle navi, furono affondati diverse imbarcazioni nel porto, tra cui un bastimento chiamato Maddaloni. Si diceva che fosse carico di rame e che, all’atto del suo recupero, all’arrivo degli americani, questo prezioso metallo era sparito. Fu anche affondato un sommergibile che stava ormeggiato, per la riparazione, alla banchina dei Magazzini Generali. Nei Magazzini Generali era allestita una officina per la riparazione delle imbarcazioni e noi allievi operai, eravamo contenti di portarvi le bombole di ossigeno ed acetilene dal cantiere, perché si perdeva molto tempo a trasportarle sui carrellini, sottraendoci al lavoro nelle officine.
Sempre Nell’estrema confusione di quei giorni, io e il mio amico Antonio Caccioppoli (successivamente arruolatosi nell’Esercito e non più ritornato a Castellammare), approfittando che l’edificio della Capitaneria di Porto era deserto – in quanto i marinai o erano stati presi prigionieri o erano scappati – rubammo un fucile mitragliatore, quello con il treppiedi. Io trasportai un nastro con i proiettili ed un elmetto. Andammo con il bottino nel canalone di Caporivo e volevamo provare il nostro “giocattolo”. All’improvviso venne un uomo della famiglia De Simone che facevano i lattai a salita Santa Croce e ci cacciò in malo modo dicendo: “Delinquenti, ci volete far uccidere dai tedeschi!”. Di quel mitragliatore non ho saputo più nulla. Appreso dei saccheggi alla fabbrica di Cirio, anch’io mi recai a Traversa Mele e riuscì a trafugare due barattoli di marmellata. C’era una confusione enorme; tutti spingevano e si accavallavano per portarsi via quanto più viveri possibile. A via Napoli nei pressi del pastificio Di Nola, vidi un uomo ferito ad un piede che veniva trasportato a braccia verso l’Ospedale di piazza Municipio. Un giorno, sempre a Traversa Mele, un tedesco di guardia, durante un altro saccheggio, fece scappare un colpo di mitragliatore che colpì alla testa una donna. Mi ricordo ancora la donna distesa a terra con il sangue che scorreva sui basoli. Io mi ero intanto nascosto dietro al muretto che separava la strada dalla ferrovia e, facendo capolino, vidi che il tedesco le si avvicinò (la donna aveva capelli lunghi) e muovendola con lo stivaletto, nel vedere che era morta, con un gesto di noncuranza, ritornò al suo posto di guardia davanti al cancello della Cirio. Intanto il saccheggio continuava, ognuno portava via qualcosa dai pastifici o dagli uffici abbandonati; vidi a via Quisisana, nei pressi del Collegio dei Mutilatini di Don Gnocchi, della gente trasportare letti e materassi dall’Ospedale  militare della Reggia; una donna aveva sottratto finanche una fisarmonica.
Sempre in quel posto, mi ricordo una scena strana. C’era un tedesco con una divisa kaki, che sotto la sahariana indossava una camicia nera. Con un mitragliatore a tracolla, mangiava un salame che aveva trafugati chissà dove. Un giovane del posto, sembra che appartenesse alla famiglia detta degli “zingarielli” di Scanzano, imprecò contro Mussolini. Il tedesco lasciò il salame e stava imbracciando il mitra per sparagli, intervennero delle donne che lo dissuasero a tanto, dicendo che il giovane non stava bene di testa. Il tedesco, quindi, comprendeva l’italiano. Ancora oggi non riesco a spiegarmi quella strana divisa che indossava e la comprensione della lingua italiana. La mia abitazione era al terzo piano di Via Coppola proprio di fronte alla caserma Carabinieri (la caserma è stata ivi ubicata fino agli anni ‘60; ora palazzo storico, già sede del consolato dell’Impero di Russia durante il Regno delle Due Sicilie NdR) e precisamente agli uffici del Comandante. Quando i tedeschi imposero il bando di deportazione nei campi di lavoro in Germania ed Austria per le classi nate dal 1910 al 1925, la tipografia che ebbe l’ordine di stamparlo ubicata un po’ più sopra della caserma, non aveva energia elettrica; i tedeschi imposero al Comandante di prestare due carabinieri per far funzionare a mano la rotativa. Per questo episodio lo stesso fu processato all’arrivo degli americani. I giovani rastrellati venivano raggruppati sulla Cassa Armonica e man mano portati via da camion tedeschi verso il campo di smistamento di Sparanise. Durante il rastrellamento, a Caporivo c’era una donna che organizzava la fuga dei giovani verso Agerola, dove c’erano gli americani. Mio fratello e mio cognato usufruirono di questo aiuto. Io ero piccolo d’età e di statura ed i tedeschi non mi presero mai in considerazione. Presero, invece, un mio compagno di appena due anni più grande Ciccio Zurolo che abitava nel mio palazzo; era solo un ragazzo alto e sembrava più vecchio della sua età. Io corsi da sua madre che fece subito intervenire un suo zio della Milizia, forse console, che lo fece liberare. Successivamente Ciccio si arruolò nei Carabinieri e, dopo essersi congedato, seppi che si era dato al calcio. Un altro mio amico, un certo Emilio Esposito del rione Spiaggia, mi spiegò che, invece di essere inviato in Germania, fu aggregato come una specie di servitore alle truppe tedesche che risalivano verso il Nord. Assieme ad altri italiani, con una fascia al braccio sinistro, usufruivano dei residui del bottino ed avevano gli zaini pieni di ogni ben di Dio. Una sera furono avvicinati da un sottufficiale altoatesino della Wehrmacht che parlava bene italiano; egli disse loro di scappare al più presto perché, in prossimità dell’arrivo degli Alleati, i suoi camerati avevano deciso di ammazzarli tutti all’indomani. Andò bene, invece al mio amico Antonino Puglia che, al ritorno dalla Germania, mi spiegò che era stato assegnato, come manovale ad una rivendita di carbone gestita da una vedova di guerra. Io, forte della mia immunità anagrafica e somatica, girovagavo sempre dove c’era movimento e confusione. Ero molto incosciente. In Villa Comunale c’era una postazione con un cannone a canna lunga rivolto al porto e sistemato nell’aiuola davanti ai servizi igienici. Nel viale dei platani, invece, furono montate molte tende tedesche, alcune di colore chiaro. Un giorno un tedesco mi fece segno di avvicinarmi ad una di queste e mi regalò una manciata di penne e di quaderni. Io avrei preferito del cibo. Finalmente il 28 settembre scesero da Agerola gli americani. Tutto cambiò. Io ritornai a fare il tubista. Il cantiere era tutto in rovina; le corvette sullo scalo ed in allestimento, unitamente all’incrociatore Giulio Germanico, erano distrutti. Molte navi ed imbarcazioni giacevano nel porto così pure il sommergibile ormeggiato al pontile dei Magazzini Generali. Si contarono i morti tra militari e civili, ammontavano a diverse decine (6). Mi ricordo che incominciai a lavorare con Pietro Schettino, un operaio qualificato tubista, più anziano di me. Lavoravano per la manutenzione dei portelloni delle imbarcazioni da sbarco degli Alleati. Questi sistemarono un lungo reticolato di filo spinato dal cantiere fino alla Capitaneria di Porto; il tutto sotto la sorveglianza della polizia militare inglese. Un giorno mio fratello mi disse che in una di queste motozattere da sbarco c’era bisogno di un cuoco. Io, con il permesso del capo operai Peppe Vollono, padre di Ciccio e Catello, andai a bordo per iniziare la mia nuova attività, pur figurando come tubista della Navalmeccanica. Il cartellino me lo timbrava il guardiano don Giovanni, non mi ricordo il cognome, ricordo solo che era della Penisola Sorrentina. Le mie mansioni erano quelle di riscaldare il roast beef nel fornello e nel preparare la tavola per i circa 8 uomini di equipaggio, riempiendo sempre di whisky i bicchieri. Contento del mio lavoro, il capo imbarcazione mi diede un pass per la polizia militare al cancello presso la Capitaneria. In quel periodo portai a casa moltissimo scatolame di carne, piselli in polvere, marmellata ed altro ancora, di cui beneficiarono parenti e vicini di casa. Ma questa è un’altra storia…

Fonte: http://www.lavocedelmarinaio.com/2014/09/8-settembre-1943-a-castellammare-cero-anchio/
lavocedelmarinaio.com In foto Vittorio Iovino

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