Ognuno recita il proprio ruolo, immerso in quella divina sensazione di devozione allo scopo comune: la realizzazione di un'opera d'arte, che anche la bonifica bellica sa idealizzare.

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Ognuno recita il proprio ruolo, immerso in quella divina sensazione di devozione allo scopo comune: la realizzazione di un'opera d'arte, che anche la bonifica bellica sa idealizzare.

Le migliaia di bombe inesplose sulle quali viviamo

Categories: Editoriali

Il 17 ottobre è stata disinnescata una bomba d’aereo di 220 chili, risalente alla Seconda guerra mondiale, trovata in un campo di Granarolo Faentino, in provincia di Ravenna. A fine settembre 50 famiglie di Sasso Marconi, in provincia di Bologna, erano state evacuate per poter far brillare un ordigno, anch’esso d’aereo, trovato accanto al fiume Reno. Pochi giorni prima era accaduto a Monterotondo, in provincia di Roma: 5.000 persone erano state evacuate dopo il ritrovamento di una bomba contenente 120 chili di esplosivo. In Italia ci sono 25.000 bombe d’aereo inesplose risalenti al periodo tra il 1940 e il 1945. Si trovano sottoterra, solitamente tra i cinque e gli otto metri di profondità. Sono ciò che resta del milione di ordigni che le forze alleate, soprattutto la Royal Air Force inglese e la United States Air Force americana, sganciarono sul paese durante la guerra. Molte non esplosero del tutto, ma solo parzialmente: erano difettose oppure semplicemente le condizioni ambientali non erano favorevoli. Sono tuttora armate, non pericolose finché restano dove sono, finite in profondità per la loro configurazione e per il peso. Ma sono potenzialmente capaci di provocare danni alle cose e alle persone se vengono smosse, toccate, maneggiate senza attenzione e professionalità. Si possono trovare ovunque, lungo la costa tirrenica tra Anzio e Salerno o in corrispondenza delle linee di difesa tedesche nel Centro Italia, o ancora vicino alle strade che le divisioni naziste percorsero lasciando da sconfitte l’Italia. E si trovano anche nelle periferie delle grandi città, attorno a quelle che negli anni Quaranta erano le zone industriali di Milano, Torino, Genova. Non esistono in Italia grandi aree dove si possa dire con certezza che non ci siano bombe inesplose. E agli ordigni di aereo si aggiungono mine, granate e bombe a mano inesplose, le munizioni di armi pesanti sepolte dalle truppe naziste in ritirata per non farle cadere in mano nemica. Nelle zone alpine si trovano ancora le bombe chimiche caricate con gas asfissianti della Prima guerra mondiale. «Ogni anno vengono rinvenuti circa 60.000 ordigni bellici di diverso tipo» dice Roberto Serio, Segretario Generale dell’Associazione Nazionale Vittime di Guerra, «dal proiettile d’artiglieria alla bomba d’aereo. Sono ordigni tuttora pericolosi, anzi sempre più pericolosi. C’è una sola cosa infatti che viene deteriorata dal tempo ed è la spoletta: questo rende l’ordigno più instabile». Gli iscritti all’Associazione Nazionale Vittime di Guerra sono in larga parte vittime di ordigni bellici inesplosi: «Per capire quanto sia ancora pericolosa la situazione», dice Roberto Serio, «basta guardare la storia di alcuni nostri iscritti. Il più giovane, che ha 22 anni, ha perso la vista e una mano a causa di una bomba a mano dell’Esercito italiano risalente alla Seconda guerra mondiale. Certo, le cose sono migliorate rispetto agli anni Settanta e Ottanta ma ripeto, ci sono ancora molti pericoli». Gli ordigni vengono solitamente rinvenuti negli scavi in profondità delle metropolitane, nei campi delle industrie agricole, durante i lavori per porre le fondamenta di nuovi edifici. Una legge del 2012, la 177, sancisce come obbligatoria la valutazione dei rischi da possibile rinvenimento di ordigni bellici inesplosi nei cantieri interessati da scavi. È la valutazione a determinare, sulla base dei risultati, se sia necessario effettuare la “bonifica sistematica”. Matteo Bassi, riconosciuto dal ministero della Difesa come tecnico BCM, Bonifica Campi Minati, spiega: «vengo chiamato da aziende, amministratori, enti pubblici per fare valutazioni preventive di un determinato luogo. Significa che effettuo indagini storiche sui fatti bellici, valuto la vicinanza a quelli che durante la guerra erano obiettivi sensibili, analizzo il terreno e opero con un metal detector. Quindi fornisco a chi mi ha commissionato il lavoro una valutazione del rischio. In base alle risultanze verrà richiesta o meno una bonifica sistematica che verrà fatta poi dall’Esercito». Le aziende che possono fare questo genere di lavoro devono essere iscritte a un albo del ministero della Difesa. «Noi non possiamo rimuovere né maneggiare gli ordigni», dice Francesco Zivolo, titolare della Zivolo Cavalier Francesco che si occupa di bonifica terrestre e subacquea, «interveniano in una fase precedente, ci occupiamo della ricerca di eventuali ordigni. Lavoriamo con magnetometri per le ricerche in profondità o con altri strumenti se la ricerca avviene in superficie. Poi però deve intervenire l’Esercito». A effettuare la bonifica vera e propria infatti sono poi gli operatori EOD (Explosive Ordnance Disposal) addestrati nel Centro di Eccellenza C-IED (Counter Improvised Explosives Devices) di Roma e dislocati in 12 reggimenti del Genio in tutta Italia. Che a distanza di 76 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale l’Italia faccia ancora i conti con pericolosi residuati di quegli eventi lo testimoniano le cronache locali. Il 21 settembre, in un terreno agricolo tra i comuni di Comiso, Gulfi e Chiaramonte, in Sicilia, è stato trovato in pessime condizioni un proiettile perforante d’artiglieria di grandi dimensioni. È stato fatto brillare il 18 ottobre dagli artificieri del genio guastatori di Palermo. Sempre a fine settembre una mina navale tedesca con 300 chili di esplosivo è stata rinvenuta in mare a 100 metri dalla spiaggia di Seccagrande, nell’agrigentino. Negli stessi giorni sono state evacuate mille persone a Segrate, in provincia di Milano, per disinnescare due bombe d’aereo mentre a Schivenoglia, nel mantovano, una famiglia ha trovato un ordigno nel proprio giardino. Quando i ritrovamenti avvengono in città le cose si complicano: a Brindisi nel dicembre 2019 vennero evacuate oltre 50.000 persone per disinnescare una bomba d’aereo trovata nei pressi di un cinema multisala. Sempre nel dicembre 2019 a Torino fu resa inoffensiva una bomba rinvenuta durante gli scavi per realizzare il teleriscaldamento, tra via Nizza e via Valperga. Come in altri casi simili nelle città, la zona era stata divisa in zona rossa, con evacuazione obbligatoria, e zona gialla dove la gente aveva potuto rimanere in casa seguendo però istruzioni precise. Le operazioni di evacuazione e disinnesco vengono solitamente chiamate “bomba day”: costano qualche migliaio di euro, qualche decina se avvengono nelle città. In base al contesto, se si tratta cioè di un ritrovamento in campagna o in una zona abitata, viene deciso di volta in volta se distruggere sul luogo la bomba o trasportarla altrove. Generalmente viene fatta esplodere all’interno di una buca oppure vengono realizzate strutture che svolgono la stessa funzione, con l’obiettivo di contenere gli effetti dell’esplosione dell’ordigno. «Esistono due tipi di bonfica», dice ancora Roberto Serio, «quella occasionale, e cioè quella che avviene quando un cittadino si imbatte in un ordigno, e la bonifica sistematica cioè quando, dopo studi di una determinata area interessata da lavori pubblici o privati, si pensa che lì si trovino uno o più ordigni. Il problema è che la bonifica bellica non viene considerata onere per la sicurezza e quindi si possono effettuare appalti al ribasso. Crediamo che debba esserci un intervento a livello legislativo, non può esserci il ribasso quando si parla di sicurezza». Il primo bombardamento in Italia fu condotto su Genova da parte della RAF nella notte tra l’11 e il 12 giugno 1940 il giorno dopo la dichiarazione di guerra, da parte di Benito Mussolini, alla Francia e all’Inghilterra. L’ultimo avvenne il 4 maggio 1945 sulle colonne tedesche in fuga verso la Germania. Secondo i dati ufficiali delle forze alleate, solo recentemente declassificati (a cui cioè è stato tolto il segreto di Stato), sull’Italia vennero sganciate 378.891 tonnellate di ordigni pari al 13,7% del totale sganciato sull’Europa, corrispondenti appunto, secondo le stime, a circa un milione di bombe. I centri industriali del Nord come Genova, Milano e Torino subirono più di 50 attacchi ciascuno. Alle città portuali come Messina o Napoli andò peggio: oltre 100 incursioni aeree ciascuna. Alcune città più piccole furono quasi completamente distrutte: Foggia perse il 75% degli edifici residenziali, Rimini fu bombardata per molti mesi consecutivi perché si trovava sulla linea del fronte. I primi obiettivi, al Nord e al Sud, furono militari e industriali. A Torino, l’11 giugno 1940, gli aerei della RAF avevano come obiettivo lo stabilimento FIAT di Mirafiori ma sbagliarono, e le bombe caddero sulla città uccidendo 17 abitanti. Nei giorni seguenti, altri obiettivi furono i depositi di petrolio nei porti di Genova e Savona, le raffinerie di Porto Marghera, i porti di Livorno e Cagliari, le fabbriche dell’Ansaldo e della Piaggio a Genova. Milano fu attaccata per la prima volta il 15 giugno 1940. Lo scopo del raid era colpire le fabbriche aeronautiche Caproni, Macchi e Savoia Marchetti, ma le bombe caddero invece sulla città. «All’inizio», spiega Claudia Baldoli, professoressa associata di Storia contemporanea nel Dipartimento di studi storici all’Università statale di Milano, «i bombardamenti si concentrarono sulle aree industriali e sui porti. Genova per esempio era sia città industriale sia porto e si trovava anche lungo una importante via di comunicazione verso la Francia. Al sud furono colpiti soprattutto Napoli e i porti siciliani da cui partivano i rifornimenti per le truppe italiane in Africa. Dal dicembre 1942 i bombardamenti divennero progressivamente a tappeto (Area Bombing) per attaccare le zone industriali e colpire allo stesso tempo il morale delle popolazioni». Gli attacchi divennero intensi anche al Sud per preparare lo sbarco in Sicilia degli Alleati e poi nel Centro Italia, nella zona tra la linea Gustav e linea Gotica, le due linee di difesa tedesche. La prima partiva dal confine tra Lazio e Campania, nella zona di Frosinone e arrivava a Ortona, a sud di Pescara passando per Cassino. La seconda, più a Nord, andava dal fiume Magra, tra La Spezia e Massa Carrara, fino a Pesaro. Era lunga 320 chilometri, lungo il tracciato erano stati piazzati 479 cannoni, 2.375 mitragliatrici, circa 4.000 casematte e 16 mila postazioni per cecchini. Erano stati stesi centinaia di chilometri di filo spinato e scavate innumerevoli trincee anticarro. In quelle zone, alla fine della guerra, tra il 1946 e il 1948, vennero effettuate numerose operazioni di bonifica. Ma molti ordigni restano ancora sepolti. Così come se ne trovano più a nord dove i bombardamenti continuarono intorno ai nodi ferroviari, alle linee stradali e ferroviarie, ai ponti. Non sono però solo le bombe d’aereo a essere sepolte nel sottosuolo italiano. Ci sono granate, esplosivi, colpi d’artiglieria inesplosi, grandi quantitativi di munizioni abbandonati sul fondo di fiumi. E mine: immediatamente dopo la guerra ne furono trovate e disinnescate due milioni. L’opera di bonifica fu imponente, ma fu impossibile precisare l’estensione dei campi minati, molti dei quali posati senza una successiva registrazione, altri manomessi nel corso della guerra. Vennero classificati 60 tipi di mine diverse, tutte pericolose ma in particolare le schrapnellmine, le cosiddette “mine saltellanti” (gli americani le ribattezzarono Bouncing Betty, dal nome di un cartone animato, Betty Pop) o quelle “a farfalla”, lanciate dagli americani soprattutto in Sicilia e Veneto. Le “fortezze volanti”, come erano soprannominati i bombardieri americani Boeing B-17, sganciavano contenitori che in prossimità dell’impatto si aprivano disseminando intorno centinaia di piccole bombe, che scendevano con moto rotatorio. Erano ordigni micidiali e proibiti, e li utilizzarono anche i tedeschi sull’Inghilterra. In Italia le zone a più alta concentrazione di mine erano quelle lungo la linea Gustav, la zona intorno a Cassino e quella di Anzio. Lungo la linea Gotica furono posate almeno 100.000 mine antiuomo. Intorno ad Anzio, dove avvenne lo sbarco delle truppe alleate, su un perimetro di una quarantina di chilometri quadrati furono poste 200.000 mine tra anticarro e antiuomo. «La bonifica avvenne subito dopo la guerra con i mezzi che si aveva a disposizione, spesso le cose vennero fatte con faciloneria», dice Serio, «per esempio le bombe trovate in prossimità delle zone portuali vennero semplicemente gettate in mare. A volte i pescatori venivano pagati per portare gli ordigni al largo e buttarli in acqua». Anche il fondo del mare è quindi pieno di ordigni risalenti alla Seconda guerra mondiale. Una relazione del 1999 dell’Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e Tecnologica applicata al mare affermava che nel basso Adriatico erano presenti circa 20.000 residuati bellici a carica chimica. Nel porto di Bari, il 2 dicembre 1943, un bombardamento tedesco affondò 20 navi alleate: molte di loro avevano le stive piene di bombe caricate con varie sostanze chimiche. Alla fine della guerra, inoltre, l’esercito americano abbandonò nei mari italiani quantità mai specificate di armamenti tra cui ordigni contenenti fosgene, cloruro di cianuro e cianuro idrato. Era indicato nei rapporti resi pubblici durante la presidenza di Bill Clinton e poi nuovamente secretati. Bombe che ogni tanto tornano a galla come è successo a luglio a Comacchio, quando un ordigno americano al fosforo è rimasto impigliato nella rete di un pescatore.

Fonte: https://www.ilpost.it/2021/10/19/bombe-inesplose-seconda-guerra-mondiale-italia/

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